mercoledì 1 maggio 2013

THE WAITING GAME AL TRENTO FILM FESTIVAL.

Io mi sono seduto in ultima fila, davanti a me avevo tutto il pubblico. Avevano proiettato un altro film prima, e nella sala c'era già buio. Erano già finiti gli applausi e i commenti con il vicino di sedia e i titoli di coda sul nero stavano per finire, sono finiti, poi si sono di nuovo abbassate le voci.

Nero.

Toccava a noi, adesso. Il nostro film. I suoni, gli ultimi suoni prima del silenzio, venivano risucchiati dalle pareti e dalla moquette e dalle sedie. Un colpo di tosse, ancora. Qualcuno che aveva ancora qualcosa da dire. Un altro colpo di tosse giù in fondo in prima fila, sulla sinistra. Poi silenzio, quel silenzio peloso che c'è dentro alle sale dove si proiettano i film. Buio. E poi finalmente il film è iniziato.

Io l'ho già visto cinquanta volte o cinquecento, in cinquanta versioni diverse, o in cinquecento o in cinquemila, chi lo sa più, ormai? Ogni volta una diversa. Alla fine non ce la facevo più, e finalmente avevamo chiuso, avevamo finito. Stop. The end. Ora il film era lì che si srotolava davanti agli occhi di tutti.

Il film adesso era una cosa diversa da una idea nella mia testa e da un'elenco di appunti scritti con la biro blu sul mio quaderno. Il film adesso era luce e buio e voce e musica e personaggi che prendevano forma. Hansjorg. Ben. Eneko e Iker. Levi. William. Personaggi, i miei amici non erano più persone, non erano quelli seduti vicino a me lì a fianco, adesso erano quell'altra cosa diversa sullo schermo a cui io  avevo cercato di dare forma e corpo. E cuore.

Davanti a noi su quello schermo così grande e bello sequenze di immagini che si rincorrevano e che io con Milena avevamo provato a spostare una infinità di volte: un po' più avanti, un po' più indietro; un po' prima, un po' dopo; un po' prima del suono o della musica, un po' dopo. Sequenze e fasi all'inizio soltanto abbozzate che poi avevano preso forma e che si erano arricchite di dettagli, di particolari, di immagini prese da un altra camera o da altri punti di vista. Tagli. Sintesi. Ellissi temporali. Cose impossibili da fare, racconti impossibili da fare. Tentativi andati a vuoto, tantissimi. Poi altri tentativi, altre soluzioni. Compromessi.

Io ero lì in fondo in ultima fila ed avevo davanti a me le teste di tutti, di tutto il pubblico. La sala era piena. Il pubblico era una cosa viva, un organismo pulsante e unico e lo sentivo respirare e ridere e trattenere il respiro e poi ridere ancora. Spostarsi sulla sedia, da un bracciolo all'altro, tutto nello stesso momento. Lo sentivo chiedersi: Cosa succede? Chiedersi: perchè il film non finisce, adesso?

Stare lì in fondo, in ultima fila, era come stare su una spiaggia e vedere le onde arrivare da lontano. Vederle formarsi all'orizzonte, con tutta quella massa d'acqua che si solleva e poi prende forma e ci restituisce una idea del mare che è collina e montagna e scogliera e aria e dondolio di un altalena e profumo di salsedine e di sabbia e una barca che passa all'orizzonte e cielo che si fa arancione e poi rosso e che poi tramonta laggiù in fondo dove non sembra ci sia nient'altro che acqua e cielo.

Il mare non è acqua. Il mare è mare. E' caos. Indipendente.

Siamo noi, dalla spiaggia, che facciamo ordine, che assegnamo il senso. Che cerchiamo di capire. Che immaginiamo.

Io ero lì e vedevo quelle onde arrivare da lontano, io lo sapevo quando arrivavano le onde e le seguivo con lo sguardo, le vedevo avvicinarsi. Guardavo alle teste del pubblico che avevo davanti come si guarda un bambino sulla battigia che salta le onde quando frangono. Ci si mette un po' indietro, si rimane alle sue spalle e ci si accerta che mentre gioca, mentre va incontro alle onde, tutto vada come deve andare. Si controlla. Che la schiuma o la risacca non lo trascini via, a quel bambino. Si partecipa alla sua gioia, quando c'è. Lo si protegge. Lo si lascia fare.

Si sentono i piedi che si bagnano.
La sensazione del freddo alle caviglie.
Il rumore della schiuma che sbolle nell'aria.
Il suono della risacca.
Si vedono quegli immensi archi bianchi di schiuma che si disegnano di lato sulla spiaggia e che poi, dopo un secondo, spariscono via.

Ecco, guardare il mio film in mezzo al pubblico ieri, era più o meno quella cosa lì. Guardare il film in mezzo agli altri mi ha insegnato più di tutto quello che avevo imparato finora. Ho chiuso un cerchio. Ho avuto delle risposte a delle domande che prima, soltanto quarantuno minuti prima, non ero nemmeno in grado di fare.
Ho capito delle cose, in un istante, in un momento solo. Ed è stato bello. Bellissimo. E' bello imparare, capire dove hai fatto giusto e dove magari hai sbagliato o potevi fare meglio.

Da domani si riparte, con delle altre idee. Con un altro progetto.

Da qui, ormai, indietro non si torna.

The Waiting Game trailer > https://vimeo.com/51811416

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