venerdì 8 novembre 2013

CERTE FOTO.

Ci sono delle foto che quando le guardi sembra che l'universo sia immobile. 

Sembra che il tempo dentro a quella foto si sia fermato per un istante a prendere il respiro, per un momento, uno solo. Un brevissimo istante in cui il tuo passato si è solidificato e il tuo futuro, proprio a partire da lì, da quel momento esatto che tu ricordi perfettamente, abbia preso una direzione inaspettata, si è impennato in una traiettoria imprevedibile come se quella scena, quella situazione che la foto ritrae, fosse diventata la rampa di lancio del tuo destino, la corsia di accelerazione della tua vita intera. 

Ho visto decine di foto così, in vita mia. Foto di altri. 

Foto di uomini e di donne, di giovani e di vecchi, di amici e di amiche che si abbracciano o che si sorridono, di solito all'inizio o alla fine di qualche cosa, in una pausa, in cima a una montagna o in un parcheggio, su una barca a vela o su una spiaggia, in un prato ingombro di roba, nel retro di un furgone durante un trasloco, sul divano di una casa in disordine, luoghi così. Posti a caso. Sono foto che se tu sei uno dei soggetti ritratti, ti lasciano senza parole e ti fanno male. Ti fanno bene, e ti fanno male, insieme. Sono un pugno nello stomaco e una carezza. Una fucilata. Sono il vento che corre senza ostacoli. 

Cerchi di non darlo a vedere ma quelle foto, quando arriva uno che te ne mette in mano una, ti commuovono. Ti viene da piangere. Allora prendi la foto e la metti via, in tasca, fai finta di niente e vai avanti a fare le tue cose o a ridere e scherzare, a ricordare, però tu, per tutta la sera, per tutto il tempo che stai in mezzo agli altri, continui a pensare a quella foto. Porti la mano sulla tasca ogni tanto, per controllare che la foto sia ancora lì. Lo sai che è lì. Tu però la vuoi toccare. Poi vai a casa, prendi la tua automobile e ti metti in strada, e a metà del percorso tra il luogo da cui sei partito e casa tua ti fermi. Accosti, togli la marcia e spegni il motore, spegni la radio. Tiri fuori la foto dalla tasca della giacca e la guardi. Stai lì in silenzio a fissarla. Stai lì per un po', per un bel po'. Poi torni a casa e la foto la metti via, la metti in un posto che sai solo tu e poi ogni tanto, soltanto ogni tanto, la vai a cercare quella foto, la guardi di nuovo e poi la metti di nuovo via. 

Adesso di quelle foto, volevo dire, ne ho una anche io. 

Me l'ha regalata un mio amico, l'ha portata a casa di mia mamma qualche giorno fa. E' la foto di me e di mio papà, alla fine di una giornata di sci alpinismo. Pizzo dei Tre Signori, l'anno credo fosse l'84, fine maggio. Eravamo saliti da Ornica portando gli sci in spalla, poi con le pelli di foca fino al colle. Poi Tito e Jader, gli amici di mio papà che erano con noi erano stanchi e avevano voluto fermarsi al colle. C'era vento. A me poteva andare bene, io mi sarei anche accontentato. Io facevo quello che mi dicevano. Invece mio papà mi disse "Tu vai in cima da solo, se vuoi. Vai. Io ti aspetto qui, con gli altri. Io ti guardo". Esitai un po'. Poi partii veloce, quasi di corsa. 

Nella testa mi rimbombavano le parole "ti guardo", sentivo che non ero solo lì sopra, cioè, ero solo, ma anche non ero solo. Mio padre c'era e mi guardava. Fino al colle ero andato piano per aspettare gli altri, per rispetto, per non esagerare, ma da lì in avanti, da solo, potevo fare il mio passo. Il ritmo che volevo. Mio papà mi seguiva con lo sguardo, mi voltai due o tre volte a controllare se mi guardava sempre - mi guardava - nel frattempo al colle dove c'era lui erano arrivati anche gli altri, visti da lì da dove ero io erano solo tre puntini colorati. Io arrivai in cima al Pizzo dei Tre Signori quasi correndo e toccai la croce di metallo con la mano, la toccai come toccavo la parete a fondo vasca in piscina quando ci andavo a nuotare e mi spinsi via. Sentii il metallo freddo attraverso i guanti e poi tornai indietro subito, come fossi stato in apnea. In effetti lo ero, in apnea, lì sopra senza mio padre. Da lì in vetta non lo vedevo più, dove era. Prima di cominciare a sciare e a scendere, appena sotto la cima, mi ricordai di guardare almeno una volta intorno, un giro di orizzonte, come mi aveva insegnato lui. "Se no in cima alle montagne, cosa ci andiamo a fare?" Poi scesi, stando attento a non cadere. 

Sciai da solo nella crosta dura rigelata dal vento, era difficile, molto difficile, con gli sci di allora poi - un paio di Tua Excalibur comprati con i miei soldi - ma sciai bene. Molto bene, mi disse poi mio padre, per quello che aveva potuto vedermi. Arrivai al colle e al grande sasso dove mio papà e Tito e Jader mi aspettavano, mi strinsero la mano e scendemmo subito in basso, fino alle baite. Faceva freddo e c'era nuvolo ma la neve cominciava a essere più morbida, primaverile. Firn. Sciammo bene, molto bene, tutti, era fine stagione ed eravamo molto allenati. C'era odore di terra umida e di neve che si scioglie. Arrivati alle baite invece sembrava estate, non c'era più vento e il cielo era azzurro. C'era l'erba verde e c'erano i bucanevi e i sassi di verrucano rosso erano caldi dal sole. C'era il rumore del torrente lì vicino. Ci spogliammo gli scarponi e le giacche a vento e ci sedemmo a mangiare e a bere qualcosa. Quella era l'ultima sciata dell'anno. 

Prima di sedersi mio papà mi strinse la mano un altra volta e mi abbracciò ma senza dire niente, solo mi strinse e mi diede una specie di colpetto con il palmo della mano sulla nuca, mi offrì da bere dalla borraccia e poi si sdraiò comodo con la schiena sul suo zaino. A parte il Canto Alto e le altre colline dove avevo il permesso di andare a correre anche da solo, e a parte la Cava di Nembro dove andavo ad arrampicare tutti i pomeriggi - ma quello non era andare in montagna - quella era la prima volta che arrivavo in cima a qualche cosa senza di lui. Senza mio padre. 

Ero salito in cima a una montagna da solo ed ero sceso con gli sci. Quello era stato una specie di passaggio di testimone, in un certo senso un sorpasso. Ero diventato adulto ed ero diventato alpinista, tutte e due le cose insieme. Esattamente quel giorno, esattamente in quel momento. 

Meno male che il Tito, l'amico di mio papà, era lì nei paraggi e gli è venuto in mente di fare una foto. Questa qui sopra

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