sabato 11 ottobre 2014

QUELLA VOLTA CHE HO SCALATO CON BEN MOON.

Era il 1986 e le gare di arrampicata erano alla preistoria. Chiamarle gare, di già, è una esagerazione. Erano in realtà degli incontri dove c'era sì una gara e una classifica ma soprattutto gli arrampicatori ci andavano e anche partecipavano per incontrarsi e per conoscersi e - non tutti avevano il coraggio di dirlo - per confrontarsi e per constatare personalmente lo stato dell'arte dell'arrampicata sportiva. C'era una fame pazzesca di confronto, cosa da sempre condannata e ripudiata e denigrata nell'alpinismo classico, storicamente da sempre alla ricerca di valori assoluti. L'alpinismo lo pensavamo (ce lo facevano pensare) un po' come una religione o una scienza. L'arrampicata sportiva invece era un'altra cosa e tutti noi a cui piaceva arrampicare su gradi sempre più duri, per il puro gusto del gesto sportivo, infischiandocene della lotta con l'Alpe, cominciavamo a capirlo. Allora non c'era internet non c'erano i video o i DVD e l'unico arrampicatore sportivo di altissimo livello che gli italiani avevano visto in televisione era Patrick Edlinger in Opera Verticale. C'era Alp e c'era la rubrica Il Punto Rosso curato da Andrea Gallo che teneva nota dei progressi dell'arrampicata italiana e di quella europea. Poi più o meno, basta. Io gli arrampicatori stranieri forti che conoscevo li avevo incontrati quasi tutti in falesia, in Francia, e li avevo visti dal vivo e solo alcuni di loro mi avevano davvero impressionato. Non tutti erano forti come li descrivevano sulle pagine delle riviste, secondo me. Avevo visto arrampicare Jerry Moffat - il mio idolo - Beat Kamerlander, Patrick Edlinger, Marc e Antoine le Menestrel, JB Tribout, Alex Duboic, Didier Raboutou, Jakie Godoffe, Ron Fawcett, con alcuni di loro avevo anche arrampicato e alcuni mi erano sembrati più terrestri di quello che immaginavo. Altri invece mi erano sembrati molto più forti di come pensavo si potesse arrampicare invece, molto meglio di come la scarsa celebrità che accompagnava questi personaggi avrebbe suggerito. Mi ero fatto una classifica tutta mia, in testa. 

Quello era il primo anno che Sportroccia si disputava in due tappe. La seconda delle due gare, la finale, veniva disputata a Bardonecchia, come al solito, sulla Parete dei Militi che era un bellissimo posto ma la parete rocciosa non aveva molta qualità e nemmeno molta storia o tradizione alle spalle, condizione ideale per disputare una gara per peccatori sacrilegi senza fare incazzare nessuno. Ad Arco di Trento si tenne invece la prima tappa quell'anno, in quella che sarebbe stata la gara progenitrice del Rock Master. Si capiva subito che i soldi della Provincia Autonoma di Trento stavano per arrivare a foraggiare l'arrampicata e il nascente climbing stadium (allora su roccia) e che il baricentro di Sportroccia si stava per spostare dall'ovest all'est. Arco era una location molto più prestigiosa, in effetti è lì che arrampicavano quelli che ci avevano addestrati a riconoscere come i padri della arrampicata sportiva italiana: Manolo, Roberto Bassi, Heinz Mariacher, Luisa Jovane, eccetera. Poi non era esattamente così, ce n'erano anche altri, ma insomma io a 17 o 18 anni mi ero fatto quell'idea. Come tutti. Che l'ombelico dell'arrampicata italiana fosse ad Arco. 

Io ancora anche quell'anno non partecipavo alla gara, avevo assistito alla edizione precedente di Sport Roccia e ancora mi rimbombavano nelle orecchie le frasi del "Documento dei 19", quella carta che i 19 arrampicatori sportivi più influenti dell'epoca scrissero per opporsi alla competizioni sportive nell'arrampicata. Io ero ancora lì a meditare sul da farsi e a riflettere sulla ragionevolezza di quella carta, sull'etica e sui principi nel frattempo però le gare le andavo a vedere. Tutte, che poi erano state due. I miei amici, quelli che incontravo nelle varie falesie italiane e che gareggiavano mi chiedevano perché  non partecipavo alle gare e io, non sapevo bene cosa rispondere. Perché non partecipavo? Boh. In effetti l'anno dopo cominciai a gareggiare. Nel frattempo dei 19 firmatari del documento, quasi tutti lo avevano già fatto, tra loro Patrick Berhault rimase l'unico a non gareggiare mai in una competizione di arrampicata sportiva. 

La cosa fantastica della arrampicata sportiva e delle gare era poter essere gomito a gomito con le leggende della arrampicata sportiva e così ti capitava di stare qualche ora o qualche giorno insieme a persone che conoscevi solo di nome, per la loro leggenda personale che aleggiava tra gli arrampicatori. Sai che Gullich fa sette trazioni monodito su un braccio? Otto. O forse dieci. Undici. Venti. Sai che Manolo fa la spaccata frontale? Sai che le vie in Totoga sono tre gradi più dure delle vie del Verdon? Ellamadonna. Sai che Beat Kamerlamder ha il travo fuori dal furgone e si allena due volte al giorno? Sai che la sua fidanzata è una top model da paura? Sì, quello lo sapevo.

Ad Arco quell'anno durante le gare mi ritrovai ad arrampicare con uno che non conoscevo. Il tipo in questione mi aveva chiesto di fare qualche via di riscaldamento con lui, era uno che non avevo mai visto e che non parlava italiano. Parlava inglese. Aveva dei lunghi capelli rasta e devo dire, non un gran bell'aspetto, io comunque risposi entusiasta di sì. Principalmente perché non era italiano e sentivo la necessità di mostrarmi international e gentile, anche se all'epoca non capivo una parola di inglese. Poi lui mi sembrava abbastanza emarginato dagli altri climber, non è che lo cagavano molto, diciamolo.  E neanche a me. Andammo ad arrampicare insieme. Passammo prima dal mio furgone e presi le mie cose e il tipo mi seguì docile tenendo un doppio sacchetto di plastica della Conad in mano. Notai che dentro c'era la sua roba, rinvii, sacchetto della magnesite, imbrago e un mezzo panino rosicchiato. E un paio di Boreal grigie. Capii dai gesti che mi chiedeva se potevamo usare la mia corda che lui non l'aveva e io risposi entusiasta di sì. Corda nuova, cercai di dire. Lui non sembrò particolarmente colpito. Andammo e arrivammo alla base della falesia e lui estrasse le sue cose dal sacchetto, si preparò e cominciò a salire, io gli feci sicura. Non mi chiese se poteva andare per primo, ando'. 

Tra le cose che teneva nel sacchetto sparse per terra notai un carnet di buoni pasto riservato agli atleti in gara, quindi capii che era un concorrente. Al terzo spit capii che doveva essere uno di quelli buoni, lo capii da come usava i piedi e dalla facilità con cui scalava. Rimasi impressionato, non avevo mai visto niente del genere. Quando fu il mio turno di salire sfilai la corda e partii, tentai di adoperare con i piedi la stessa delicatezza e la stessa precisione che aveva usato lui sugli appigli, io non avevo mai visto nessuno arrampicare così. Così bene. Nel farlo le mie braccia si ghisarono presto e finii la via senza cadere ma con le braccia durissime. Chi cazzo è, sto tipo? Non ci eravamo nemmeno detti il nome. Arrampicammo alternandoci per tre o quattro tiri, scegliendo le vie in difficoltà crescente. All'ultima via io ero abbastanza vicino al mio limite, lui continuava ad arrampicare come all'inizio, cioè bene. Benissimo. Era meno delicato e preciso di prima, anche un po' sgraziato a tratti con quei piedoni dentro alle Boreal grigie, ma era terribilmente efficace. 

Finimmo di arrampicare e tornammo alla base, che per lui era quasi ora di gareggiare. Mi fece capire che era in gara, lo avevo capito. Misi il mio zaino in furgone e lo andai a vedere in gara su una delle vie di selezione, mi sistemai su un sasso e lui era pronto a partire. Era arrivato in partenza sempre con il suo sacchetto di cellophane della Conad, dentro a cui stava ancora armeggiando alla ricerca del sacchetto della magnesite. Poi dissero il suo nome con il megafono, io non lo avevo mai sentito: Ben Moon. Vinse la gara. 

A Bardonecchia vinse Edlinger invece, che ad Arco era salito meno del mio amico di lecco Marco Ballerini, che quel giorno, all'esordio in competizione, aveva fatto un garone. Ben Moon arrivò secondo in classifica generale. Quel giorno lì capii che l'arrampicata era una cosa diversa da quello che leggevo sulle riviste. Capii che in giro c'era in giro tanta gente di cui sulle riviste non si parlava (ancora) che scalava fortissimo. Gente come Ben Moon. Capii che per arrampicare forte e fare i gradi bisognava allenarsi di più e meglio. Preoccuparsi meno delle cose tipo gli zaini, che tanto ad arrampicare si poteva andare anche con la sportina della spesa della Conad, e preoccuparsi di più invece della sostanza. 

Cioè, di usare bene i piedi e di tenersi, ad esempio.

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