venerdì 29 aprile 2011

LE PRINCIPESSE.

Da quando hanno chiuso gli impianti di risalita e non c'è più neve, quasi tutte le mattine porto a scuola le mie due gemelle. Esco di casa, le porto in città, parcheggio la macchina, le accompagno al cancello d'ingresso, le saluto con un bacio e poi prima di risalire in macchina e ritornarmene a casa, vado a bermi il caffè. Vado in un bar dove trovo sempre un gruppo di donne anziane, di nonne. Quattro o cinque, sempre le stesse tutte le mattine. Sono lì a fare colazione. Stanno tutte sedute intorno un tavolino, sempre quello, stretto tra il bancone del bar, un calorifero e la porta d'ingresso. Sono tutte donne, tranne un signore che si chiama Renato.

Renato è un signore pelato con i baffi grigi, un po' cicciottino. Credo sia vedovo. Porta sempre una specie di panciotto di tela, uno di quelli che vanno bene per la pesca, color kaki. Ce l'ha sempre indosso, estate e inverno. Però non è un pescatore, me lo ha detto un giorno: "Non sono più un pescatore, io. Non c'ho più nemmeno la macchina, mica posso andare a pesca con la Vespa 50. Che l’è anche égia, a fùrsùra". E’ già. Dal centro di Bergamo non si può fare, di andare a pescare con la Vespa 50. Soprattutto se è vecchia.

Renato se lo contendono un po' tutte le signore, per scherzo. Dovreste vederle come sono riguardose con lui, affettuose. Sono tutte vestite eleganti, ben pettinate, con la messa in piega bene in ordine anche se si sono appena alzate. Tranne una, parlano sempre e solo in dialetto. Il cappotto anche se fa caldo, anche se è quasi maggio, non lo hanno ancora messo via, perché là màtìna prèst al fà àmò frècc. Di scrivere la storia di Rina mi è venuto in mente lì, dentro al bar, guardando quelle signore. Una volta ve la farò leggere, la storia di Rina. Qualcuno l'ha già letta.

Ogni mattina che entravo a bere il caffè mi sembrava che quelle signore si aspettassero qualcosa in più da me, non so spiegare bene, non so cosa. Una sensazione. Come se mi volessero dire qualcosa. Allora una volta, un giorno un po' di tempo fa, anziché salutarle solo con un cenno della testa come ho sempre fatto, le ho salutate più deciso, ad alta voce.

"Buongiorno, Signore" ho detto, mentre mi sfregavo i palmi delle mani in attesa del caffè.

"Buongiorno!" mi hanno risposto, tutte insieme.

E sorridevano. Ho fatto così per un po’ di volte di seguito. Tutte le mattine le salutavo ad alta voce e tutte le mattine loro erano già lì pronte ad aspettarmi e mi rispondevano in coro dopo che le avevo salutate.

“’Ngiorno!”. Poi, basta.

Poi, bevevo il mio caffè e c’era ancora quella pausa, quella sensazione che si aspettassero qualcosa di più, da me. Che ci fossero delle parole da dire che non venivano fuori.

Questa mattina ero un po’ in anticipo – non so perché, tutte le sere che vado a letto tardi, alla mattina mi alzo in anticipo – e sono entrato nel bar che c’erano solo loro. Le nonne. Mentre aprivo la porta per entrare nel bar mi sono detto: adesso le faccio ridere.

“Buongiorno Principesse!” ho detto ad alta voce.

Sono rimaste tutte i silenzio per un secondo, forse due. Si sono guardate tra di loro e poi mi hanno sorriso. Sorriso tantissimo. Poi sono scoppiate a ridere. Mi hanno risposto buongiorno, ma non tutte insieme.

“Buongiorno”.

“Buongiorno”.

“’Ngiorno”, “Buongiorno”.

“Sà fàl chè, ìssè prést, ìsta màtìna?” mi ha chiesto una.

“Oggi sono un po’ in anticipo, mi sono svegliato presto. Sarà la prìmaèra.” ho risposto.

“Allora si può sedere qui con noi, un momento” mi ha detto quella con il soprabito beigeolino. Quella che parla poco dialetto e che quando ci penso, immagino che sia Rina. Quella della mia sceneggiatura.

“Dài, per òna òlta!” mi ha detto un’altra. “ça chè!”

Mi ha tirato fuori la sedia da sotto il tavolino e mi ha fatto segno di sedermi appoggiando il palmo della mano sul sedile. Due o tre volte quel gesto con la mano, sapete quale, no?

Il signor Renato ha chiuso l’Eco di Bergamo che aveva davanti a sé sul tavolino, e si è tirato via gli occhiali. Stava guardando la pagina dei morti - su l’Eco di Bergamo la mettono ancora, la pagina dei morti - e poi si è fatto più in là con la sedia. Mi ha sorriso e mi ha fatto spazio.

“Finalmente. Che nnà pòdìe piò, de ès dèspermé in mès a tòte ‘ste dòne!” e tutte a ridere.

“Finalmente uno giovane, Renato. Mica uno come te”, ha detto una.

Io mi sono messo a ridere. Sono stato lì un po’ e abbiamo bevuto il caffè insieme. Mi hanno fatto raccontare delle mie bambine, di dove abito. Mi hanno detto che tra un mese la scuola finirà e che non ci vedremo più. Si sono fatte un po’ tristi, per quella cosa. Poi mi hanno chiesto quanti anni ho.

Ho detto: “Quarantaquattro.”

“Tè sèt amò szuèn” mi ha detto una. Io le ho sorriso.

Sono stato lì ancora un attimo a parlare, poi mi sono alzato e ho detto che dovevo andare. Ho pagato i caffè e ho salutato tutti.

“Ciao Principesse, ci vediamo domani.”

“Se Dio vuole”, ha detto una.

Nessuno ha riso.
E io sono uscito.

2 commenti:

Ame ha detto...

te se propri un brao scet ! Grande Emilio me piasarìa mangià una pisa insema. quant te se liber dimel che ghel disi al Franchino. a giogn nem a fa un Ironman in Francia. lè tot gasà ahah :-)

Anonimo ha detto...

Emilio ed il suo sguardo. L'apertura, la curiosità, l'assenza di pregiudizio, l'amore per l'umano. C'è molto di quel che serve per poter raccontare storie, nel tuo "Buongiorno principesse!".

Filippo