martedì 28 giugno 2011

DENALI STILE LIBERO.

Che non saremmo arrivati in vetta tutti insieme, lo si sapeva.

Cioè: io lo sapevo. Perfettamente. Il nostro livello era troppo eterogeneo, troppo diverso per immaginare una salita in vetta tutti insieme. Per me la cosa era chiara, per gli altri non so. Forse no. Forse non per tutti. Comunque.

Quella mattina – il 16 giugno – io mi sono messo in marcia per ultimo, a mezzogiorno. Faceva freddo - -27° C - e sulle creste in alto si vedeva qualche sbuffo di neve. Il cielo era blu, nemmeno una nuvola. La preoccupazione era quella della stabilità dei pendii che vanno al Denali Pass, attraversando in diagonale un paio di tratti esposti alle valanghe. Poi il freddo. Il meteo no, era bellissimo, finalmente. Sembrava ci fosse qualche accumulo, per le nevicate dei due giorni precedenti, ma niente di che. Perlomeno, a me sembrava tutto a posto. Nessuno si era mosso quella mattina. Nessuno aveva voglia di fare la traccia, evidentemente. Conrad Anker è partito per primo – a lui piace prendere tutti in contropiede – con gli scarponi da alpinismo, lo zaino leggero e senza sci. E’ arrivato a tre quarti del cammino che va verso Denali Pass, facendo la traccia, e poi ha chiamato con la radio. Ha detto che era tutto a posto. Che era stabile. Si vedeva anche da giù, che era stabile. Allora tutti sono partiti e in coda al gruppo anche io sono partito. Ho cercato di andare adagio, più adagio che potevo comunque poco alla volta ho rimontato tutti e mi sono ritrovato sulle tracce di Conrad. Avevo freddo ai piedi, e allora mi sono fermato a slacciare un po’ gli scarponi, a cambiare i guanti, a bere un po’. Quelle cose. Gli altri arrivavano, ma tranquilli. Allora mi sono messo ad andare con il mio passo. Regolare. Ho girato dietro Denali Pass e la neve era dura e ghiacciata. Si camminava bene, sulle punte dei ramponi. C’era un po’ di vento. Dopo un po’ mi sono messo la giacca di piumino pesante. Ho mangiato ancora un po’ – io mangio sempre troppo poco - e poi sono ripartito. La neve era di nuovo profonda ma le tracce di Conrad non c’erano più, per via del vento. Calcolando che era partito un’ora prima di me, mi sembrava normale. Sono salito seguendo la logica e un po’ di bandierine che segnano il percorso. Era bellissimo, avevo la sensazione di essere da solo sulla montagna. In effetti, lo ero. Mi sono girato un po’ di volte, e ho visto che dietro andavano adagio e che erano tutti insieme. Però lontani, lontanissimi. Conrad davanti non lo vedevo.

Allora ho continuato. La salita è lunga, ci sono una serie di dossi uno dietro l’altro, immagino che con la nebbia e con il brutto lì sia davvero facile perdersi. Poi sono arrivato ai Football Field, una zona piatta prima dell’ultimo tratto finale. Ho guardato a destra per vedere l’imbocco dell’Orient Express. Che se uno di questi giorni lo faccio con gli sci partendo da sotto, almeno so dove sbuca, mi sono detto. Dopo i Football Fields c’è un tratto ripido che si chiama Pigs Hill. Faticoso. Lì ho visto Conrad per la prima volta, non era mica lontano. Anzi. Guardava giù verso di me da sopra un seracco. Però non mi ha detto niente, non mi ha fatto nessun gesto. Allora mi sono messo ad andare senza più fermarmi. Era faticoso comunque, perché io camminavo con gli scarponi da telemark e con gli sci nello zaino. E’ sempre un bel peso. In cima alla Pig’s Hill inizia la cresta finale che porta in vetta. Non so perché, ma me l’ero imaginata diversa. Più larga, meno esposta e soprattutto pericolosa alla mia sinistra. Invece era il contrario. Gli ultimi metri prima della cima sono fantastici. Prima sbuca in cresta la via Cassin, che è un pilastro perfetto che solca la parete sud. Ho guardato giù. Poi, cento metri prima della vetta, c’è un canale bellissimo che va verso la parete sud. Dove è sceso un paio di settimane fa Andreas Franson. E’ la cosa più notevole che è stata fatta quest’anno in tutta l’Alaska Range. La prima discesa in sci della parete sud del Denali. On sight. A guardare ti viene proprio voglia di andare giù, se non fosse che poi sul fondo della parete vedi un caos di rocce e crepacci e che ti svanisce subito la poesia di andare a cacciarti in un posto del genere. E’ pazzo, Andreas. Giù di lì, da solo. Me lo ha raccontato come se niente fosse, il giorno che sono arrivato a Talkeetna e lui stava andando via. Che bravo, chapeau.

Sono arrivato in cima al Denali che Conrad era appena arrivato. Cinque minuti credo, forse neanche. Si stava facendo una foto con l’autoscatto. Eravamo lì solo io e lui, in cima. Silenzio. Ci siamo abbracciati e abbiamo parlato un po’. Ci siamo detti che eravamo fortunati di avere quella cima tutta per noi. Quel giorno per la cima non era partito nessun altro. Abbiamo fatto un po’ di foto, mangiato, camminato su e giù per la cresta. Mangiato ancora, fatto altre foto. Fatto ginnastica per riscaldarci. I primi dopo di noi sono arrivati dopo un’ ora e cinquanta. Poi a seguire gli altri. Gli ultimi sono arrivati tre ore dopo. In totale io sono stato in vetta circa tre ore e quindici. Che calcolando che per tutta la salita ho impiegato quattro ore e che faceva un freddo cane, non è che fosse proprio poco. E’ stato bello quando è arrivato Sage. Sage Cattabriga. Era stanco, però felicissimo. Ci siamo stretti la mano, abbiamo fatto ancora un po’ di video e un po’ di foto. Poi è arrivato Lucas de Bari, che è uno snowboarder e ha solo 22 anni. E’ un freestyler. Però è arrivato fino a lì. Chapeau, anche a lui. Poi, finalmente, abbiamo iniziato a scendere. Siamo andati giù direttamente sotto la cima, su un pendio ripido e – spettacolo – in quaranta centimetri di neve polverosa. Quando sono partito per fare la prima curva ero un po’ preoccupato di trovare qualche sastrugio sotto la neve morbida. Qualche blocco di ghiaccio o qualche lastra nascosta. Non puoi permetterti di cadere o farti male, in un posto così. Poi ho visto che la neve era bellissima e leggerissima, e allora ho mollato giù gli sci a tutta. A tutta, proprio. Come se fossi stato a casa mia a Foppolo o in Giappone o in uno di quei posti dove sono stato quest’inverno. In Canada o a Valdez. Come se niente fosse. Non so quante curve ho fatto scendendo dal Denali, forse qualche centinaio. Erano tutte fantastiche. Speciali. Speciali perché dentro a ciascuna di quelle curve c’erano tutte le curve del mondo, tutte quelle che ho fatto in questi anni. Era un distillato di telemark, del mio telemark, quello che mi veniva fuori sciando lì in cima. Non c’era niente da pensare, mi bastava andare, andare giù. Non ero io a fare le curve, erano le curve che facevano me. Non ero io che scendevo, era il pendio che mi veniva incontro. Non so se riesco a spiegarvela questa sensazione. Leggerezza. Purezza. Tutto e niente, insieme. Essere sciato, anziché sciare. Quello, dico.

A inizio giugno, prima di partire da casa, ero libero di scegliere se andare al Denali con gli sci da telemark o con lo snowboard. Ho deciso di andare in telemark pensando a due cose. La prima è una poesia di Pablo Neruda – veramente è di Marta Meideros.

Che dice:
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, ….


Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai 
consigli sensati. 



(P. Neruda)

La seconda è una cosa a cui ho pensato tante volte in questi mesi. Mentre correvo o pedalavo o arrampicavo, nei miei allenamenti quotidiani, tante volte mi sono chiesto : cosa è lo stile? Ci ho pensato tanto. E sono giunto alla conclusione che lo stile, per me, è la capacità di fare la stessa cosa in tanti modi diversi. E a me questa idea piace. Cambiare. Adattarmi. Mettermi in gioco. Forse è per questo, anche, che mi piace salire più di una volta qualsiasi montagna. Una sola non mi basta, di solito.
La discesa dalla cima del Denali è stata fantastica. Siamo scesi tutti insieme, uno alla volta, un pezzo alla volta. Il piacere non era solo scendere, sciare, ma anche guardare gli altri. Osservare. Capire. Capire Sage, capire Ingrid, capire Lucas, Jim, Jimmy, Hilaree. Capire le loro curve, le loro linee. Capire quello che veniva fuori da loro, capire quale era il loro distillato. Il loro stile. Il loro senso della curva. Abbiamo filmato e fatto foto, poi verso le 8 e mezza eravamo di nuovo al campo a 17.000 piedi. Felici. Tranquilli. Ci siamo abbracciati tutti. Abbiamo sorriso. Siamo stati lì fuori dalle tende a parlare e a guardare le nostre tracce. Era una bella sensazione di leggerezza, di felicità, di niente. Esatto, la sensazione del niente. Poi siamo andati a dormire.

Il giorno dopo ci siamo preparati, abbiamo fatto colazione – poca, non c’era più niente da mangiare – e poi siamo scesi dalla Rescue Gully. Che è un canale ripido ed esposto, che noi non avevamo fatto in salita. Era difficile capire le condizioni. Per primo è andato Sage. Da giù in fondo ha detto qualcosa con la radio. Io ero un po’ indietro, ho capito solo le parole exposed, icy e gnarly. Che detto da Sage, deve essere una cosa seria. Devono averlo pensato anche gli altri, perché nessuno andava più giù. Allora mi sono fatto avanti, e ho guardato giù, l’imbocco del canale. A me non sembrava male. Anzi. Nel frattempo è scesa Giulia – aveva il dente avvelenato, per via del giorno prima, a lei la cima è sfuggita – poi Lucas e poi sono andato io. Mi hanno chiesto Vuoi la corda? Tu che sei con il telemark, come fai a scendere? Io ho detto: scendo. La corda non serve. E sono sceso. All’inizio era neve dura. Non si poteva cadere, proprio. Poi sotto era bellissimo. Ripido, ma bellissimo. Ho iniziato a curvare a telemark perché la neve era un po’ meno dura, poi è diventata powder ed è stato spaziale. Super. Sono arrivato in fondo al canale, che poi diventa parete, ho attraversato la crepaccia terminale e ho raggiunto gli altri. Ad un certo punto Sage mi ha chiesto come facevo a scendere con gli sci da telemark. I’m impressed, mi ha detto. Impressed. Lui a me. Mi sono messo a ridere. Ero un po’ in imbarazzo, non sapevo cosa rispondere, allora ho tirato fuori la macchina e per sdrammatizzare ci siamo fatti qualche foto. Io e lui, Giulia e Lucas erano già andati. Impazienti. Gli altri sopra si stavano calando, noi li abbiamo aspettati lì, chiacchierando per un bel un po’. E’ uno davvero in gamba, Sage.

Poi quando sono arrivati gli altri siamo scesi tutti insieme sull’ultimo tratto del ghiacciaio. Siamo arrivati al campo-casa, a 14.000 pedi. Ci siamo stretti la mano ancora una volta e poi abbiamo bevuto un po’ di whiskey da una borraccia, versandolo delicatamente nel tappino di plastica. Un tappino per uno, ne abbiamo bevuto. Poi sono andato nella mia tenda, mi sono spogliato dai vestiti pesanti – faceva caldo – e mi sono steso sul sacco a pelo. Ho tolto gli scarponi e le calze e sono rimasto lì a piedi nudi a godermela. E mi sono addormentato.

E questo è quanto.

Nessun commento: