Volevo provare a ragionare su una cosa. Che non è facilissima da mettere a fuoco, però io ci provo. Mica perché voglio mettermi dalla parte di chi sa le cose e mettere voi che leggete dalla parte di chi non le sa, anzi. Provo a spiegarmi perché magari capisco meglio anche io.
Allora.
Un po’ di giorni fa sono andato a fare una presentazione ad un sales meeting, possiamo anche dire quale, quello di SCARPA. SCARPA è una azienda italiana che produce reggiseni e tappi a corona per l’imbottigliamento. Ma dai scherzo, fanno scarpe, che dovevano fare? Si chiamano SCARPA, come ditta. Fanno scarpe, ovviamente. Scarpe, scarponi, scarponi da telemark e da sci. Bellissimi, tra l'altro. C'e n'è uno nuovo per l'anno prossimo poi, bellissimo, ma non posso dire di più. Mi hanno chiamato per raccontare delle cose – è la seconda volta che mi chiamano - e insomma, ci sono andato di nuovo, che anche l’altra volta mi era piaciuto tantissimo. Mi danno carta bianca per le presentazioni di solito, e anche questa volta solo a grandi linee un tema. Poi ero libero. Sono gente coraggiosa, secondo me. Il tema che avevo più o meno ricevuto era questo: dovevo dire dove è il freeride adesso. Se c’è ancora. E dove va? Dove va il freeriding? Fare il punto, a modo mio. “Come hai fatto la scorsa volta” mi avevano detto. Ok.
Allora io nelle settimane precedenti mi sono messo al lavoro, a pensarci, a ragionarci soprattutto, a tirare fuori del materiale. Un po’ di anni fa queste cose qui - fare delle presentazioni o delle conferenze - mi metteva in sbattimento, in ansia, nel senso che le subivo e mi mettevano a disagio. Mi irrigidivano. Ci pensavo e ci lavoravo ore e ore e giorni, e notti, come un muratore che deve tirare su un muro. Facevo. E disfavo. E facevo, lavorando su tabelle, powerpoint, file di grafica, layout, cose del genere. Cose secondarie, mi vien da dire adesso. Poi una volta sono andato a vedere una presentazione di uno che mi è piaciuta tantissimo, una cosa un po' strana, ma non è di quella che vi voglio parlare, per adesso. Poi un'altra volta invece, sono andato in un altro posto e quello che la doveva fare la presentazione non c’era. Hanno chiesto a me se la facevo al suo posto. “Io?” ho risposto. “Si, tu. Però magari non te la senti”. Ecco, se non avessero aggiunto magari non te la senti non lo avrei mai fatto, di fare quella presentazione, ma siccome a me piacciono le sfide che tutti sono già quasi sicuri che le perdi, ho detto va bene. Ovviamente non avevo preparato niente, in senso classico. Niente slides, niente timone, niente powerpoint. Avevo solo me. E le mie idee. E le cose che sapevo. E i miei appunti su un taccuino e il mio computer con dentro i miei files. E lo stile di racconto di quel tipo a quella conferenza strana che ero andato a vedere quella volta e di cui vi ho detto sopra che mi girava in mente. Niente, in pratica. Mi sembrava così, almeno. Di non sapere niente. La conferenza era un ora dopo. Per continuare con l’esempio del muro, avevo solo dei mattoni sparsi un po’ dappertutto e non avevo pronto neanche un pezzo di muro. Avevo un sacco di cose nella mia testa, tutte viste e lette e studiate e archiviate nel mio computer – video, spezzoni di film, cose scritte, appunti, fotografie, disegni, schemi, ritagli di giornale, articoli, vecchie interviste, pagine di libri o libri interi, insomma cose così – e allora mi sono deciso e ho fatto una presentazione del genere. Come quel tipo di quella volta. Una cosa che per farla serve coraggio. Mi sono segnato delle cose su un foglietto. Poi ho iniziato a parlare e detto delle cose, cercando di immaginare un percorso. Ho fatto vedere delle cose e ho letto delle cose. Quella presentazione è stata bellissima ed è andata benissimo. Benissimo, davvero. La migliore di sempre.
Per me benissimo è quando in sala c’è un silenzio che se allunghi la mano in avanti il silenzio lo puoi toccare con le dita. Quando senti il respiro di uno che sta nella quarta fila. Quando alla fine della presentazione o della conferenza vengono lì delle persone e invece che chiederti che scarponi da snowboard si usano a 8000 metri o invece che raccontarti cosa fanno loro – alle conferenze c’è sempre uno che parte come per fare una domanda e invece racconta cosa fa lui - vengono lì e ti abbracciano o ti stringono una mano o un polso in modo maldestro se non riescono a prendere la mano, stringono il braccio vicino al gomito e ti guardano negli occhi senza dire niente. O qualche volta ti dicono anche grazie. Non si sa neanche per cosa, ti dicono grazie. Anche tu dici grazie. Non sai neanche tu per che cosa, però sai che è per qualcosa e lo dici. Grazie. Che è l’unica cosa sensata che uno può dire, in un momento così. È un momento magico.
Fare le conferenze o le presentazioni che finiscono così – non sono tutte così - fa bene, ti fa bene dentro. E poi il mattino dopo quando apri il computer e ti sei alzato un po’ tardi perché il viaggio di ritorno è stato un po’ lungo ed eri un po’ stanco e ti sei addormentato tardi, appena apri la tua casella email dico, ci sono già dentro quattro o cinque email. Di gente che c’era la sera prima e che ti ha scritto delle cose bellissime, e lunghissime, che ti chiedi come faccia uno a scriverti tutte quelle cose così belle in così poco tempo, che anche lui quello lì o quella lì che ti scrive è andata a letto tardi la sera prima. Come avrà fatto, ti chiedi. Quando l’avrà scritta, quella email? Forse che quelle cose ce le aveva già lì? Lì dentro, da qualche parte. Nel computer o nella testa. O nella pancia. O nel cuore. In fondo non importa dove. Tu le hai fatte uscire fuori. E’ questa la cosa bella delle conferenze, quando ti chiamano per andarle a fare: quello che viene dopo.
Certe volte mi viene in mente un goal che ha fatto Maradona contro l’Inghilterra ai mondiali dell'86. Lo sanno tutti quale. Quello in cui prende il pallone a metà campo e fa tutto da solo. Ecco, quella scena. Io una volta mi sono detto, guardando e riguardando Maradona che corre su quel prato verde, che Maradona non è partito da casa sua in Argentina o dal suo albergo quella mattina, dicendo: allora, oggi contro l’Inghilterra quando inizia il secondo tempo prendo la palla a metà campo e poi faccio così e così e così, e poi vado di lì e poi di là e faccio una finta così e un doppio passo e poi stringo al centro e poi finto ancora, scarto anche il portiere, e poi la butto in rete. No. Lui non ha fatto così. Lui quella mattina si è alzato ed è andato allo stadio. Si è preparato e vestito e riscaldato. Prima della partita avrà fatto un po’ dei suoi giochettini e dei suoi palleggi spettacolari, così, per divertirsi, senza pensarci. Ci sarà anche stato qualcuno che gli avrà detto che lui è uno che non ha voglia di allenarsi e di fare fatica, che è uno che spreca il suo talento. Quelli ci sono sempre. E poi hanno iniziato la partita. E Maradona ha giocato come sapeva. E ha fatto quel gol. E quelle finte, quello spostarsi dove voleva con il baricientro, quell’accarezzare la palla con i piedi, con le cosce, con il petto e con la testa, non l’ha preparato prima, quel goal. Quel gol era lui. Quello che ha fatto, tutto quello che ha fatto in quegli ottanta metri di campo e in tutta la sua vita, quello non era nient’altro che recitare se stesso. Quello era Maradona. Quello era il calcio. Non si è allenato specificamente per segnare quel goal. Non ci ha pensato. Lui lo ha fatto, e poi basta. E’ nato per quello. E’ nato, cresciuto e vissuto e morirà per quello, per il calcio e per quel gol e per noi che lo abbiamo visto. Quella è la sua vita, la vita di Maradona riassunta dentro a un goal. E quella cosa lì adesso è di tutti quelli che l’hanno visto, allo stadio o alla tv o su intertnet, è patrimonio comune. Anche di chi proprio il calcio non lo sopporta.
Io non sono Maradona, ovviamente. Non sono il Maradona delle conferenze. Non sono il Maradona di niente, proprio. Nessuno è Maradona, nemmeno Maradona. Nemmeno Maradona è Maradona, dico. Infatti fateci caso, lui stesso ogni tanto parla di se stesso in terza persona. Maradona parlava di Maradona come se Maradona fosse un'altro. Sembra pazzo a sentirlo parlare, uno così. Sembra. Invece no. Uno così parla in terza persona perché si sente piccolo. Il suo talento era talmente grande che anche lui non riusciva a rendersi conto di averlo tutto, quel talento. Ovvio. E’ il talento che aveva lui, non il contrario.
Noi non siamo Maradona. Nessuno di noi, tantomeno io. Eppure nel nostro piccolo tutti possiamo essere Maradona. Tutti siamo Maradona, certe volte. Quando mettiamo da parte l’ansia di programmare e di pianificare e di dire e di fare e di spiegare a tutti i costi. Quando lasciamo qualcosa di incompiuto o privo di risposta risposta. Quando non pretendiamo che gli altri capiscano sempre tutto subito e a tutti i costi. Quando non abbiamo la mania di tenere tutto sotto controllo, di gestire, di controllare, di fare cose sempre giuste, perfette, impeccabili, coordinate. Che ci rassicurano.
Quando abbiamo dimenticato tutto e ci ricordiamo di tutto. Ecco, quello è il momento. Quello è l'attimo in cui, se ci proviamo, ciascuno di noi sa essere Maradona.
Quello è il momento esatto in cui la nostra vita certe volte si riassume in un unico punto, in una unica forza, in una unica semplice cosa da maneggiare, da spostare, da sollevare e da abbassare, insomma da manovrare, con facilità. Una cosa leggera. Bella. Irresistibile.
Ecco, quei momenti. Non bisogna programmarli troppo. Bisogna goderseli.
Bisogna viverli. Bisogna sentire quando arrivano. Come un vento da dietro che ti prende e che ti tira su. Bisogna farsi coraggio, coordinarsi e dare la spinta al momento giusto, poi farsi portare. Non importa dove.
Bisogna viverli. Bisogna sentire quando arrivano. Come un vento da dietro che ti prende e che ti tira su. Bisogna farsi coraggio, coordinarsi e dare la spinta al momento giusto, poi farsi portare. Non importa dove.
Per il resto, volevo dire, la presentazione alla SCARPA a me è piaciuta. É venuta bene.
Almeno, a me pare.
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