martedì 16 aprile 2013

SON BELLE COSE.

Domenica a Foppolo c'era un po' un aria da ultimo giorno di scuola.

Verso mezzogiorno o l'una in terrazza, c'erano un sacco di genitori in relax a chiacchierare e a prendere il sole e a bersi qualcosa. Gente che pranzava e chiacchierava e si godeva finalmente, una bella giornata di primavera all'aperto. Finisce sempre che dopo tanto brutto tempo uno quasi se ne dimentica di come è bella, la primavera. C'erano un sacco di bambini che giocavano nella neve sui pendii dietro al rifugio, il loro gioco era quello di salire in alto e poi venire giù scivolando sul sedere, oppure quello di venire giù a rotoloni. C'era nell'aria quell'odore di neve che si scioglie mescolato a quell'odore di paglia umida che svapora al sole e poi quell'immancabile profumo di brasato che viene su dal camino del rifugio. Fuori dalla terrazza c'era un gran andirivieni di sciatori e sci alpinisti e ciaspolatori e ragazze salite in seggiovia vestite da città con delle scarpe da città e quegli occhialoni grandi a specchio e quelle borse enormi che vanno di moda adesso. C'erano anche degli stranieri domenica stranamente, non dico inglesi o polacchi o cechi o svedesi a sciare, come d'inverno, ma indiani e pakistani e rumeni in gita per un giorno a toccare la neve. Era bello. C'era il mondo su in terrazza, domenica. Gente felice.

A un certo punto quando sono arrivato io, un gruppetto di quei bambini che giocavano e andavano avanti e indietro per il pendio si è spinto più in alto del solito e allora anche altri bambini che c'erano in basso hanno iniziato a inseguire gli altri davanti e a salire più sù, più in alto. Quelli che stavano davanti sprofondavano nella neve e guardavano quelli più dietro e giù in basso verso i genitori ogni tanto, poi si rigiravano, lanciavano uno sguardo in alto verso la croce che c'è lì sopra e riprendevano a salire. Qualcuno di loro a un certo punto deve aver deciso di essere salito abbastanza e allora dopo un po', dopo aver cercato di convincere anche gli altri bambini a scendere, a buttarsi giù, ha mollato. Ha girato le spalle al pendio, si è seduto sulle chiappe e si è lasciato andare fino in fondo. Una bella slittata, lunghissima, niente a che vedere con tutte quelle altre slittate striminzite fatte durante la stagione, quando la neve era più dura e faceva freddo e i papà e le mamme non ti lasciano tutto quel tempo là fuori da solo per andare così in alto sul pendio.

A guardare da sotto, quello che vedevo io che stavo per entrare dentro al bar era la piramide bianca della cresta del Montebello inondata di luce con quei puntini neri, bambini chini sul pendio che sprofondavano e che avanzavano passo passo, andando piano, pianissimo, come alpinisti a 8000 metri, mettendo con fatica uno scarpone davanti all'altro nella neve profonda. Lottavano. Guadagnavano centimetro dopo centimetro, metro dopo metro. Facevano la loro traccia e curiosamente non camminavano in fila stando in un unica traccia, ma ognuno faceva la propria linea salendo sulla massima pendenza. E' una cosa fantastica guardare la propria traccia lungo il pendio, che uno salga a piedi o che uno scenda con gli sci, è la stessa cosa. Accorgersi che esisti.

Più sù ancora vedevo la croce del Montebello, non so quante volte ci sono stato in questi anni con le pelli di foca, di giorno e di notte, con il bello e con il brutto, con il sole e con la nebbia, e poi sprattutto c'era il cielo, un fantastico cielo blu senza neanche una nuvola. L'aria era ferma, non c'era un filo di vento, domenica. Era una giornata bellissima, una giornata da cima come si dice tra noi appassionati di grandi montagne.

A me a guardare da sotto sembrava di vedere la fotografia di tante montagne che ho salito, montagne grandi o piccole è lo stesso, che negli ultimi cento metri prima della cima sono tutte uguali e che mi regalano sempre, immancabilmente, le stesse incredibili, fantastiche emozioni. Una cresta, un punto di arrivo e poi io e il mio compagno e nient'altro che cielo dappertutto.

Io a un certo punto ho iniziato silenziosamente, dentro di me, a fare il tifo per quei bambini. Che non scendessero. Anche quei bambini a un certo punto hanno cominciato a guardare la croce che ormai era a portata di mano, devono avere deciso di raggiungerla e a testa bassa hanno continuato a salire, hanno insistito. Della slittata in discesa, a quel punto, dovevano essersi dimenticati. Erano rimasti in pochi, ce n'erano tre vicini alla croce, un paio d'altri qualche metro sotto, e poi altri quattro o cinque più piccoli a inseguire. A quel punto sono arrivati alcuni papà e alcune mamme per vedere e per controllare cosa succedeva, che poi in effetti era un po' tardi per controllare, a voler ben vedere. Alcuni hanno urlato ai propri figli di scendere subito, immediatamente, senza discutere, quindi alcuni bambini si sono fermati e sono scivolati giù docilmente, forse un po' sollevati da tutta quella fatica e da quella ambizione incomprensibile che si faceva spazio dentro di loro di voler arrivare fino alla croce. Allora altri genitori che stavano seduti ai tavoli, sentendo quelle voci e incuriositi dal fatto che tutti tenevano il naso all'insù con lo sguardo alla croce del Montebello, sono andati a dare un' occhiata. Alcuni  di loro, a loro volta, hanno imposto ai loro figli o ai figli delle loro sorelle o cognate o vicini di appartamento, di scendere, subito. Di venire giù immediatamente.

Alla fine solo tre bambini non hanno mollato e non sono scesi. Due abbastanza grandi, che stavano già a poche decine di metri dalla croce e uno più piccolo che era uno di quelli che stavano più in basso di tutti. Uno dei due grandi - avrà avuto dieci anni - se ne è fottuto alla grande di quello che gli urlava il padre da sotto dove stavo io, un tipo con una pancia enorme, ed è andato avanti fino alla croce, è arrivato alla meta per primo. Poco dopo è arrivato quell'altro. Il più piccolo invece arrancava, ma poi, dopo un  po', mentre gli altri due lo incitavano, è arrivato anche lui. Negli ultimi passi la neve era meno profonda e allora da quella posizione china e curva sul pendio che teneva, quel bambinetto si è sollevato in piedi e ha camminato stando diritto. Era alto poco più di un metro, secondo me. Era molto piccolo. Aveva i pantaloni da sci, una maglietta dolcevita e dei guanti che sembravano enormi. Suo padre era a fianco a me, mi sono accorto, e lo osservava in silenzio suo figlio, con gli occhiali da sole neri e le braccia conserte. Lo ha lasciato fare. Lo ha lasciato andare.

A un certo punto in vetta, vicino alla croce, abbiamo visto tre bambini piccoli con le braccia alzate che si abbracciavano e che si guardavano in giro e urlavano di gioia e che salutavano noi che stavamo in basso. Allora il signore che c'era in fianco a me, il papà del bambino più piccolo ha fatto un saluto con la mano e ne ho fatto uno anche io ma solo dopo che lo aveva fatto lui, per rispetto, e poi lui ha fatto un altro segno con la mano come a dire scendi adesso e con le labbra, a bassa voce, ha accompagnato il gesto della mano sussurrando sottovoce Adesso vieni giù.

Ci siamo guardati. Io gli ho detto Sono belle cose, queste qui. Lui mi ha sorriso, e mentre si rimetteva con le braccia conserte mi ha detto anche lui Sì, son belle cose.

Poi ci siamo salutati, io sono andato in terrazza dove mi aspettavano mia moglie e i miei figli che erano già al tavolo da un po' ed erano già andati a prendermi un caffè e una fetta di torta di quella che piace a me, la torta di grano saraceno. Poi io dopo un po' quel signore l'ho rivisto con suo figlio per mano che camminava tra i tavoli, che a vederlo da vicino suo figlio sembrava ancora più piccolo di come già mi era sembrato piccolo a vederlo da lontano ai piedi della croce del Montebello. Era tutto sudato, il bambino, bagnato fradicio. Stanco morto.

Però sembrava felice.

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