giovedì 24 ottobre 2013

IL CONVEGNO.

Oggi sono stato a un convegno sulla medicina narrativa, la prima cosa interessante l'hanno detta dopo trenta secondi che ero lì, l'ha detta un medico, un oncologo:

non curare le malattie, ma curare i malati.

Ho pensato: questo qui è un bravo medico. Poi mi è partito un rewind della mente di quasi 2 anni. Ho pensato a tutte quelle notti insonni guardando il soffitto della nostra stanza. Ho pensato alla paura di non sapere cosa dire, di non sapere cosa fare, di non sapere dove mettermi, come mettermi, come comportarmi.

Come aiutarti?

Ho pensato alle ore spese a parlare, ad ascoltare, a smontare il dolore in parti più piccole, a farmi minuscolo e a cercare di capire. Ho pensato ai giorni in cui credevo non saremmo mai riusciti a venirne a capo, a tenere tutto insieme, a continuare.

Ho pensato ai miei sbagli, ai nostri sbagli, alle mie insicurezze, alle nostre insicurezze, alla voglia di tenere duro dopo avere toccato il fondo e ho pensato alla fragile idea di rifare tutta la strada da capo, al contrario, con pazienza, con determinazione, passo dopo passo senza mai mollare. Ho pensato al nostro ricostruire tutto, un pezzettino alla volta, con infinita pazienza. Senza cedere, anzi cedendo qualche volta magari, ma senza abbandonarsi all'idea di prendere la strada più comoda o più confortante, quella che altri avrebbero preferito vederci prendere. Per comodità. Per alleviare il loro dolore. Per non sentirsi in colpa. Noi invece, abbiamo tenuto duro.

Ho pensato alla rabbia che ho dovuto tirare fuori per difenderti, per difendermi, per difenderci. Per fare spazio. Ho pensato al coraggio che ho tirato fuori; agli amici che abbiamo avuto vicini, tantissimi, anche alcuni che non mi sarei mai aspettato di avere.

Ho pensato agli sguardi silenziosi del nostro cane, alle passeggiate tenendolo al guinzaglio, facendomi tirare dietro da lui quando io non avevo più la forza di andare, quando non sapevo più cosa fare o cosa dire e vagavo sui sentieri per riempirmi di silenzio. Lui mi tirava, il nostro cagnolino, si girava indietro a guardare e poi tirava, continuava ad andare. Mi portava.

Ho pensato alla incapacità di abbracciare, di ascoltare, di aspettare, di piangere, di fare silenzio, di non giudicare, di rispettare il dolore, di fare spazio dentro di se che il cancro porta con se certe volte a quelli che ti aspetteresti vicino. Quelli che Dio o il cielo o chissà chi ti hanno messo vicino. Attorno. Quelli che soffrono, malgrado loro, e che invece che accarezzare o farsi accarezzare, si dibattono.

Ho pensato: noi due - anzi, noi cinque - siamo ancora qui, insieme, nonostante tutto, nonostante tutti. Più forti di prima. Meglio di prima. Sono neanche due anni, ho pensato. Sembra un secolo.

Poi sono andato avanti a ascoltare.

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