Ho imparato che in ogni spedizione, su ogni grande montagna, le prime salite di acclimatamento sono le più importanti, le più utili, in ogni senso. Servono a prendere, letteralmente, le misure della montagna. Servono a individuare la via di salita, le eventuali zone di pericolo e quelle di riparo, le vie di fuga, i versanti da preferire o quelli da da evitare. Servono a caricare i campi alti di materiali che verranno utili più in alto ancora, più avanti, per il tentativo alla cima. Le prime salite in quota servono a fare spazio nella nostra mente e a metterci alle spalle le cose inutili, superflue e poco importanti che ci tiriamo dietro e che ci trattengono. Servono a prendere ritmo e affiatamento con il compagno.
Ma più di tutto, queste salite, servono a rendersi conto di quanto noi siamo minuscoli e insignificanti rispetto alla grandezza della natura e rispetto a queste montagne. Siamo nulla, un filo d'aria, niente. Rendersi conto della propria vulnerabilità e dei propri limiti é il modo migliore che conosco per affrontare le difficoltà. Il Nanga é enorme, ma non é questo il punto. Non importa se le difficoltà da superare sono grandi o piccole, se si tratta di montagne da scalare o di altre cose della vita, funziona sempre così per me, il meccanismo é lo stesso. Per andare oltre, per migliorare, in ogni campo, devo conoscere i miei limiti, individuarli e fissarli. Devo navigare le mie paure, senza girarci intorno. É solo allora, nel momento in cui metto a fuoco la possibilità di fallire, che sono pronto ad andare oltre. Non ci sarebbe nessun oltre, nessuna barriera da oltrepassare, nessuna soddisfazione o nessun senso nello spingersi avanti, nell'alpinismo, nello sci o nella vita di tutti i giorni, se io non conoscessi e accettassi i miei limiti come qualcosa da superare oppure altre volte, senza vergogna, come una linea da non oltrepassare.
[Me, going up to C1, foto ©thenorthface/david_göttler]
martedì 14 gennaio 2014
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