lunedì 10 febbraio 2014

COSE CHE SI IMPARANO.

Nella mia vita da maestro di sci mi é capitato qualche volta di cadere. All'inizio, quando ho iniziato a farlo come mestiere il maestro, cadere per terra costava una bevuta con gli allievi e con i colleghi della scuola. Da giovane maestro e poi anche da istruttore, anzi lì ancora peggio, mi sentivo sempre osservato e sempre in imbarazzo dopo una caduta. Quando ero steso sulla neve e magari un maestro anziano passava di lì e mi vedeva sporco di neve che mi rialzavo e mi risistemavo, in quei momenti, mi sentivo in soggezione. Inadeguato. Sbagliato. Arrivavo alla scuola di sci e loro, quei maestri, avevano già finito la loro lezione, erano già lì, perfettamente in ordine, con la giacca pulita e gli occhiali a specchio calati davanti agli occhi che sorridevano e aspettavano un altro cliente, se non c'era si spostavano al bar. Io se avevo un ora libera tornavo a sciare, ad allenarmi, a provare. A cadere, anche.

Ho visto maestri di sci insultare bambini o signore principianti a cui stavano insegnando accusandoli di essere responsabili delle loro cadute quando avvenivano, anche se non era vero. Li ho visti sbagliare e cadere per conto loro. Li ho visto diventare aggressivi e irrazionali dopo un errore, urlare e sbraitare, bestemmiare, giustificarsi in mezzo alla pista e al bar con i colleghi facendo del vero e proprio teatro, quando invece non c'era proprio nessuno da accusare e rendere ridicolo e niente da giustificare. Era solo una caduta. Una perdita di equilibrio. Un errore, capita. C'è solo da capire come é successo e stare più attenti, riprovare un'altra volta facendo meglio. Esercitarsi e allenarsi. Oppure semplicemente accettare la cosa come una casualità e non pensarci più.

Da un certo punto in avanti questa lezione che ho appreso facendo il maestro di sci mi é risultata utile in tutte le altre cose che ho provato a imparare a fare nella mia vita, ho capito che dovevo conservare un buon ricordo delle mie cadute e dei miei errori, delle mie incapacità, delle mie inefficienza, della mia goffaggine. Ho capito che i miei limiti e le mie imperfezioni dovevo accettarli e provare spostarli in avanti, il territorio della mia incapacità dovevo esplorarlo e mapparlo, non ignorarlo e fingere che non esistesse. Dallo sciare al provare a parlare una lingua straniera, dallo scrivere al guidare una moto o pilotare una automobile o qualsiasi altra cosa, nei rapporti personali, nel lavoro, nello sport, negli affetti, nel parlare in pubblico, in qualsiasi cosa io abbia provato a fare in vita mia incontrando un minimo di difficoltà ho capito di poter migliorare più grazie ai miei errori e alla voglia di porvi rimedio, che grazie alle mie abilità di partenza. É la voglia di imparare che conta, anche quando gli altri, quelli che sguazzano nella loro zona di comfort senza uscirne mai, ti criticano e ti deridono mentre non riesci a fare qualche cosa che a loro magari viene facile.

Ho imparato a non vergognarmi dei miei errori, delle mie inadeguatezze e farne cibo per le mie ambizioni, nutrimento per realizzare i miei sogni, per migliorare. A scuola e nella vita ti educano a non sbagliare e se lo fai a non darlo a vedere nei momenti che contano, quando gli altri ti guardano, a spostare l'attenzione su altre qualità che eventualmente hai, in realtà dovrebbero insegnarti a misurarti da solo e a correggerti, a valutarti in base alle tue potenzialità e alle tue aspirazioni, non in base alla opinioni che hanno gli altri su una certa cosa e a uno standard prestabilito. Quello, lo standard e ciò che pensano gli altri di quello che fai sono un punto di partenza casomai, non un punto di arrivo. I nostri errori al pari dei nostri successi sono la nostra storia. Non si diventa ciò che si vuole essere grazie al fatto di non commettere errori. Non é l' infallibilità o la perfezione quello verso cui dobbiamo tendere. La perfezione é una cosa banale e relativa, sopravalutata, tutti sono infallibili e capaci di fare alla perfezione una cosa molto facile, é di quelle più difficili che non si siamo in grado di fare che bisogna provare a preoccuparsi. Delle cose che non ci riescono al promo colpo. Non tutti o non sempre sono capaci di spingersi al proprio limite, di provare e riprovare, di sbagliare, di tenere botta alle critiche, di tentare qualcosa di nuovo o di diverso, di mettersi in gioco per progredire.

Questo é un mondo in cui quello che pensano gli altri di noi spesso ci influenza al punto di dominare la nostra mente e il nostro agire. Il fare in modo che ciascuno di noi almeno ogni tanto di senta inadeguato é una strategia, un modo per definire e rinnovare delle gerarchie. Il senso di inadeguatezza che ogni tanto si insinua in noi é un punto su cui fare leva per controllare le nostre ambizioni e il nostro crescere. A fotterci, a farci arrendere spesso sono le nostre stesse aspettative e il desiderio di appartenenza, la voglia di uniformarci e di non esporci, di stare tranquilli, la necessità che abbiamo di sentirci accettati e apprezzati per quello che già siamo. A volte il personaggio che dobbiamo recitare davanti agli altri ci tiene in ostaggio.

E' per questo, per progredire, che bisogna accettare la possibilità di sbagliare, di commettere errori, di sentirsi inadeguati, goffi e ridicoli davanti agli altri e bisogna anche avere il coraggio di distribuire qualche vaffanculo ogni tanto, per difendere la propria autostima e il proprio impegno, se veramente vogliamo passare al livello successivo.

Oppure l'alternativa é passare tutta la propria vita in un contesto rassicurante come il bar dei maestri a farsi ammirare e riconoscere nella propria minuscola perfezione grazie alla patacca o alla divisa, come ho visto fare a certi colleghi maestri di sci, che é una vita che sono fermi lì. Al bancone del bar.

Non sono mica tutti cosi, i maestri di sci, per fortuna. E' un esempio.

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